Do Androids Dream Of Electronic Paintings?

Stefano Castelli


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Nel 1966 Michel Foucault concludeva il suo rivoluzionario Le parole e le cose con questa profezia suggestiva e in parte sibillina: “Se a causa di qualche avvenimento del quale possiamo al massimo presagire la possibilità, ma di cui al momento non conosciamo né la forma né la promessa, le disposizioni fondamentali del sapere si ribaltassero, allora c’è da scommettere che l’uomo si cancellerebbe come un viso di sabbia sul limitare del mare”. Il concetto di uomo come essere autonomo, intoccabile e dotato di diritti è relativamente giovane, ci dice il grande filosofo; le sue future evoluzioni non sono dunque affatto scontate.
In modo solo in parte improprio, si potrebbe associare tale frase a uno degli stravolgimenti principali della storia recente, ovvero la parziale espropriazione dell’autonomia umana a favore della dimensione tecnologica. Senza ricadere in visioni fantascientifiche, nelle quali le macchine si rendono autonome per loro iniziativa, va sottolineata l’azione dell’uomo stesso a favore di questa espropriazione, tramite i rapporti di potere, economici e commerciali (la “biopolitica” di Foucault è qui un altro riferimento fondamentale ed anticipatore).
I lavori di Patrick Tabarelli indagano in maniera indiretta argomenti di questo tipo. Per realizzare i suoi dipinti, l’artista si avvale di un macchinario da lui programmato, che risulta paradossalmente l’autore effettivo dell’opera. Eppure siamo lontani dal determinismo e dalla celebrazione delle possibilità della macchina: artista e strumento tecnologico stipulano un patto che vuole essere di tipo nuovo, anche rispetto alle precedenti sperimentazioni artistiche in questo campo. Si instaura una sorta di addio alle armi, un patto di non belligeranza in cui uomo e macchina rendono fluido il confine tra i rispettivi compiti. Una doppia convergenza, in cui la mano dell’uomo si spoglia di una parte dei suoi automatismi culturali e la macchina viene privata di una parte dei suoi automatismi meccanici.
Non un’ennesima versione della “morte dell’autore”, dunque, né una mimesi critica come quella di Warhol, che si identifica con la macchina per sottolinearne la predominanza. E nemmeno una nuova forma artistica di luddismo, come quelle di Metzger o Tinguely, che costruiscono macchine per poi favorirne la distruzione. Piuttosto, un passo indietro da parte dell’autore stesso, che si espropria della sua opera per metterla alla prova già nella fase della concezione. Durante la programmazione dell’algoritmo, Tabarelli lascia un grado di libertà alla macchina, che poi si intensifica quando la drawing machine è all’opera. Qui si inserisce la dimensione della casualità – intoppi, piccoli salti, problemi tecnici, maggiore o minore intensità del segno, interazione tra inchiostro e supporto…
È in questo margine di libertà che la macchina “si personifica”, anche perchè si tratta di un macchinario soft, tecnologico ma anche artigianale e “morbido” nei movimenti e nel tratto. Ma soprattutto si personifica la pittura: nonostante essa sia automatica, il processo con cui realizza se stessa diventa fluido, dinamico, morbido ed esteso nel tempo. Siamo di fronte in definitiva a un esempio di quella “pittura metaforica”, ovvero realizzata con altri mezzi, che attraversa gli ultimi anni di ricerca artistica, da esempi precoci come Christopher Wool a protagonisti recenti come Wade Guyton. Una maniera per rivitalizzare, ripartendo da zero, un mezzo espressivo che deve ogni volta evitare di scadere nella maniera, anche nel campo dell’astrazione (“un confronto continuo della pittura con altri media nella definizione o ridefinizione di se stessa”, nelle parole di Tabarelli).
In effetti, se si prova – capziosamente ma efficacemente – a leggere i lavori di Tabarelli isolandone alcuni elementi e confrontandoli con passaggi fondamentali della storia dell’arte, si aprono prospettive quasi ironiche. La lavorazione sul piano orizzontale, per fare solo uno degli esempi possibili, rimanda istintivamente a Pollock. Ma qui, dall’eroismo del protagonista dell’Action Painting si passa alla freddezza e alla lentezza di una macchina programmata che, pur personificandosi in parte, non è certamente in grado di imporre una personalità sua propria. Dall’ “Azione” si passa a un agire indolente, che smitizza il gesto del pittore anche per la dilatazione dei tempi di realizzazione.
Ma questi dipinti possono – e devono – essere guardati al di là del loro processo di realizzazione. Il benevolo duello tra artista e macchina rimane un retroscena che lascia la sua traccia nell’estetica dei lavori ma non viene esplicitato direttamente.
Il punto rimane il peculiare aspetto dei lavori e persino il rapporto concretamente percettivo che si instaura con l’occhio di chi li osserva. Colori e segno sono in un certo senso innaturali, creano un iniziale sospetto. Con un automatismo visivo e culturale, sembra di scorgere effetti optical, a un primo approccio. Eppure l’effetto “impressionistico” tipico di quella corrente non funziona fino in fondo. Da lontano l’immagine non si ricompone e continua a oscillare, da vicino la trama si sfilaccia lasciando il centro della scena al tratto pittorico, con un’alternanza di morbidezze e punti più acuminati, momenti di snodo e di raccordo – cardini fondamentali per la composizione globale del dipinto. Si potrebbe applicare a questi dipinti la bipartizione in studium e punctum che Roland Barthes elabora per l’immagine fotografica, con le trame orizzontali che rappresentano lo studium, l’estensione, e i punti di snodo il punctum, l’intensione. Ma qui, l’immagine viene completamente eliminata a favore di un’astrazione antireferenziale (ma non autoreferenziale), completamente priva non solo dell’icona ma anche della sua negazione. La trama del quadro si sviluppa orizzontalmente, come un flusso, senza ricomporsi in un diagramma afferrabile nella sua completezza. Si tratta di quadri che raffigurano un momento di passaggio, di transito: l’istante in cui si compie la trasmissione di stimoli visivi, potenzialmente infinita eppure catturata in un’opera concreta e ricca di sensazioni tattili. Un’opera che gode nonostante tutto di ogni canone della pittura, dal rapporto col formato ai canoni compositivi, fino all’espressività del segno.
La ricerca intrapresa da Tabarelli negli ultimi anni tende con coerenza alla più recente evoluzione, presentata in questa mostra. Nel ciclo Quasi res, elementi naturali venivano trasposti in modelli 3D parametrici e poi dipinti. Nel ciclo Voluta, l’evanescente soggetto dei “filamenti di fumo” conduceva all’introduzione di un inedito modo pittorico che cercava una terza via tra astrazione e figura, tra stabilità e temporalità. Zero-Om è infine il punto di svolta che conduce alla poetica odierna, con l’abbandono del soggetto e dei mezzi tradizionali della pittura a favore di strumenti realizzati in proprio. Come si vede, si tratta di un processo di successivo sfrondamento, di apertura, anche di liberazione rispetto a canoni che caratterizzano la pittura come mezzo “oppresso” dalla sua stessa storia. Apertura che si compie anche rispetto al determinismo relativo alla dimensione meccanica/elettronica/tecnologica. Nel rapporto tra mano umana e macchina si tende quindi verso uno spazio ipotetico, aperto, un campo di libertà che si incarna simbolicamente nel quadro. La terza via che si crea tra segno meccanico e libero, tra elementi automatici e manuali, non è una media delle caratteristiche di entrambi, ma qualcosa di costruttivo. Il fantasma che si nasconde nella macchina, evocato dal titolo che l’artista ha scelto per questa mostra, diventa meno temibile perché una parte della sua personalità appartiene all’autore, che l’ha fatto nascere e l’ha inoculato nella macchina. All’evidente distopia che riscontriamo ogni giorno a causa del predominio della tecnologia si sostituisce un campo aperto di possibilità che potrebbe svilupparsi in una felice utopia.
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